intervista di Marì Alberione (duels.it) a Gianpiero Alighiero Borgia

di Marì Alberione

Nel 1920, Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti emigrati negli Stati Uniti rispettivamente da Torremaggiore (Foggia) e da Villafalletto (Cuneo), vengono accusati di omicidio e, dopo un processo farsa basato su prove infondate, condannati alla sedia elettrica. È il 23 agosto 1927. A distanza di cento anni, loro storia continua a parlarci: i due sono diventati, loro malgrado, degli eroi oltreché l’emblema della discriminazione e dell’ingiustizia. Nella condanna pesarono infatti il pregiudizio razziale e le loro idee politiche. In Cabaret Sacco & Vanzetti del Teatro dei Borgia i due anarchici diventano una coppia comica (interpretata dagli ammirevoli Valerio Tambone e Raffaele Braia), la tragedia si fa farsa e la loro vicenda assume la forma dell’avanspettacolo (con le canzoni di Papaceccio mmc e Roberta Carrieri). In questo modo la loro vicenda si staglia con una forza ancora maggiore permettendoci di coglierne tutte le assurdità. Una storia per certi versi destinata a ripetersi…

Ne abbiamo parlato con Gianpiero Alighiero Borgia, regista nonché anima, con Elena Cotugno, di una delle realtà più interessanti del panorama teatrale.

Il ribaltamento che metti in atto è spiazzante. Trasformi in avanspettacolo una storia nota (c’è il film di Giuliano Montaldo, la canzone di Joan Baez, svariati libri, una graphic novel…). Perché?

Ho l’impressione che il nostro è un Paese che invecchia senza crescere proprio perché ha un rapporto effimero con la Storia, non ne ha acquisito una consapevolezza, ci sono zone di tabù, falsi miti, prospettive manichee fatte troppo facilmente di buoni e di cattivi. Guardiamo la Storia come si dovrebbe guardare al Drive-in oppure al varietà. Per cui il progetto nasce con il meta-obiettivo di parlare di un rapporto non del tutto capace di farci crescere come Paese, come cittadini con la nostra Storia. Penso che il caso di Sacco e Vanzetti possa dirci tanto. È una storia complicata da raccontare perché è stata molto raccontata, chiaramente siamo tutti dalla loro parte perché è conclamato e oggettivo che fossero delle vittime di un processo farsa. Essendo una storia nota, teatralmente su che cosa poggi lo sviluppo della vicenda, del dramma, il racconto?

Sono partito dal presupposto che spesso le storie apparentemente note iniziamo a darle per scontate. In Italia si dà per scontato il fascismo, l’antifascismo, l’Unità d’Italia, l’aggregazione europea, l’acquisizione della democrazia e se pensiamo a quello che è successo dall’89 a oggi con una sistematica diminuzione delle istituzioni e di quanto sangue era scorso prima perché quelle istituzioni diventassero tali, viene fuori quello di cui voglio parlare io in termini generali, cioè di un Paese che non è in grado di fare ricchezza della propria storia, di crescere.

Purtroppo è anche una storia con molti riferimenti all’attualità.

Adesso ci troviamo in questo momento patetico nel quale il Paese che, per oltre due secoli, è stato uno dei principali fornitori di immigranti, la popolazione che è stata oggetto di discriminazione razziale in una quantità infinita di Paesi nel mondo, si permette di dare licenza al razzismo come fosse un diritto acquisito, come se il razzismo avesse a che vedere con la libertà d’espressione. Allora parlare oggi di Sacco e Vanzetti è importante perché ci fa vedere come poco tempo fa fossimo gli altri, i destinatari della discriminazione. Trovare l’avanspettacolo come chiave di ribaltamento è un po’ provocatorio, poi in realtà a un certo punto il pubblico inizia a ridere, abbandona il discorso della provocazione, in questo modo gli si fa passare la storia effettivamente drammatica che spero ci ricalibri e ci faccia riconsiderare come noi italiani tutto ci possiamo permettere fuorché di essere razzisti.

Su quali materiali hai lavorato?

Abbiamo lavorato su tante cose. Esisteva una drammaturgia di Michele Santeramo per un altro spettacolo intitolato Sacco e Vanzetti loro malgrado che, fu anche prodotto qualche anno fa, aveva cinque personaggi ed era un racconto della loro carcerazione e degli interrogatori successivi. Ovviamente Montaldo è stato un punto di riferimento importante anche per scegliere cosa non fare, cercando di capire cosa lui non avesse raccontato, per evitare di cadere nella prevedibilità. È rimasta l’arringa finale di Vanzetti, fatta nel film da Gian Maria Volonté. Si tratta di un documento storico, è l’effettivo commiato alla Corte suprema quando ormai era chiaro che non avrebbero avuto la grazia e quindi più che un atto di difesa è un j’accuse che Vanzetti fa al sistema giudiziario americano e, giustamente, un’apologia delle proprie idee politiche. A parte questo momento, non ci sono coincidenze narrative. Però gli studi che aveva fatto Montaldo per la costruzione della sceneggiatura sono stati importanti, hanno costituito l’apertura, da lì sono venute fuori le lettere di Sacco alla famiglia, gli atti processuali, c’è una pubblicistica considerevole su come è andato il processo. A un certo punto per me è stato importante capire quello che era storico e quello che non lo era per darmi un criterio, ovvero mettere nello spettacolo solo notizie storiche a prescindere da quello che fosse il linguaggio attraverso cui raccontavamo che, spesso, è davvero avanspettacolare, caricaturale, enfatico, grottesco.

È tutto vero quindi, anche il fatto di correre da svedesi?

Sì, è tutto agli atti. Nell’istruttoria del processo, quindi durante i primi interrogatori con il riconoscimento da parte dei testimoni, fu imposto loro di mimare alcune sequenze di quella che si supponeva fosse stata la dinamica della rapina, quindi furono obbligati a fare le scimmie… la finta corsa, la pistola, il paradosso di essere riconosciuti a ottanta metri di distanza, così come subire interrogatori non solo senza conoscere la legge americana ma senza nemmeno capire alla lettera, perché non c’era il traduttore, la parola del procuratore Katzmann che orchestrò tutta quanta la vicenda processuale, la perdita della ragione di Sacco, il rapporto strano con la moglie e la figlia maturati nel periodo in cui Sacco fu allontanato dal carcere e rinchiuso in un ospedale psichiatrico perché manifestava sintomatologie nervose di quella che forse oggi chiameremmo depressione conseguente agli eventi. Insomma, abbiamo scelto di individuare notizie storiche e di raccontarle come se i due personaggi fossero una coppia comica di quelle appartenenti all’iconografia classica. Potrebbero essere Dean Martin e Jerry Lewis, Gianni e Pinotto, Stan Laurel e Oliver Hardy… Ci siamo quindi posti in ognuna delle situazioni chiedendoci: Se fossero stati Stanlio e Ollio o Totò e Peppino come l’avrebbero vissuta? Anche la morte diventa la morte di Stanlio e Ollio, raccontiamo quella di Sacco e Vanzetti, ma mostriamo quella dei due artisti di avanspettacolo. Mi piaceva che questa cosa creasse un doppio piano che non ci obbligasse a un finale naturalistico-imitativo di com’era andata a finire la morte vera, ma ci consentisse di alludere a essa attraverso, sostanzialmente, la morte dello spettacolo.

Nel tuo percorso ci sono altri Cabaret storici…

Sì, è un progetto più ampio. Lavoro per cicli, non ho stima del mio talento, ho bisogno di studiare tanto e di provare tanto, allora trovare dei filoni, stare a lungo su una materia mi consente di approfondirla e di concedermi il tempo di diventarne padrone. Poi le idee di uno spettacolo finiscono nell’altro, nascono come acerbe a un certo punto del ciclo, pensi che siano tempo perso e, invece, si svelano importanti due anni dopo. Abbiamo cominciato nel 2017 con il Cabaret D’Annunzio e abbiamo già in produzione un lavoro che mi sta prendendo molto tempo, quindi non so bene quando arriverà in porto e che si chiamerà MM Kabarett, Mussolini e Matteotti e riguarderà quello che avviene in Italia tra il 1919 e il 1925…

Ristabilisci un equilibrio rispetto al libro di Antonio Scurati?

Il punto della doppia M è stato fondamentale. Scurati ha fatto un’opera eccelsa, però il rischio in Italia è quello di affrontare la M sbagliata… È stata una partogenesi importante la sua, effettivamente la materia è sterminata, quindi trovare la chiave di volta del racconto non è semplice. Chapeau al lavoro che Scurati ha fatto, l’ho anche molto frequentato. Però è indubbio che si studi molto più Mussolini che sicuramente ha avuto un’influenza particolare sulla nostra storia e molto meno i Matteotti e questo ci fa tornare a quello che dicevo all’inizio: non abbiamo un rapporto maturo con la nostra Storia, la studiamo in termini manichei, senza preoccuparci di capire perché i buoni erano buoni e i cattivi cattivi, le differenze etiche tra i personaggi sulla scena, per quello per me è stato importante affiancare l’altra M dandole il giusto peso.

Parallelamente stai portando avanti il lavoro sui miti: Medea, Eracle, Filottete visti come eroi dei margini. In cosa consiste?

È un altro ciclo, il progetto in questo caso si chiama “La città dei miti”. La mia visione dell’eroe tragico contemporaneo è antipodica rispetto a quella hollywoodiana, il mio eroe non va verso l’alto, il mio eroe viene dai margini, è la prostituta straniera confinata ai margini dei nostri viali nel caso di Medea, il padre separato che vive di barbonaggio nel caso di Eracle. Stiamo sviluppando questo tema, oltre all’indagine sociale su come il genitore separato, per come funziona il mondo occidentale, è spesso condannato – se appartiene a un certo ceto sociale – a cadere nella disgrazia economica. In Italia, in particolare modo, riguarda il maschio perché c’è un retaggio e una prassi – che vale solo per la separazione mentre in tutto quanto il resto della società è il contrario-, in cui il perdente è statisticamente il padre. Poi c’è un terzo lavoro, Filottete, sui temi dell’abbandono familiare, della demenza senile, in particolar modo stiamo facendo uno studio su una malattia degenerativa che è la demenza a corpi di Lewy che ha una sintomatologia confusa, una parte di sintomi, come la perdita di memoria, sono collegati all’ Alzheimer, ma presenta delle somatizzazioni che sono, di fatto, allucinazioni dolorose, non c’è una ragione fisiologica, un problema clinico, da qui il punto di prossimità con Filottete. Nel suo caso la piaga c’è veramente, ma la percezione del dolore di quella piaga non viene compresa da nessuno e questo crea la sua separazione dagli Atridi e dagli altri eroi greci. In questo senso sono eroi dei margini. “La città dei miti” si svolgerà nelle periferie delle città in cui andremo, in una tenda di ricovero per diseredati, in un appartamento che potrebbe essere uno qualsiasi in cui una famiglia decide di abbandonare il proprio congiunto, sul furgone di Medea…

Da una parte i miti ti servono per parlare di persone ai margini, dall’altra nei Cabaret prendi storie reali che diventano esemplari. Si può dire che sono le due facce di una stessa medaglia?

Cogli perfettamente nel segno. Il mio processo artistico è un pendolo, parto da un’idea che secondo me è abbastanza acquisita da tanti colleghi della mia generazione ed è comunque importante per me: si è pensato che l’arte dovesse imitare o influenzare la vita e che la vita dovesse influenzare l’arte, secondo me valgono pari. Il teatro ha gli stessi diritti della vita e la realtà, la vita hanno gli stessi diritti del teatro. Il tema è semmai il confronto, io come artista posso e devo usare la realtà e il mio lavoro artistico può e deve influenzare la realtà. Così il mondo poetico nel quale mi muovo – sia nel lavoro con gli attori che oscilla sempre tra quello che succede a loro come persone e quello che devono fare sulla scena, sia nei temi o nella sintassi o nella poetica scenica che vado costruendo – non può prescindere da questo. La mia realtà è un sintagma, è una frase che rientra nello spettacolo. La città fuori dal furgone di Medea che il pubblico vede dal finestrino e che costituisce la scenografia, è una città vera, così come le notizie storiche di Sacco e Vanzetti o di Mussolini e Matteotti sono reali ed entrano nella scena. Allo stesso modo spero che la mia scena entri politicamente nella realtà e con politicamente intendo dire nella coscienza delle persone che partecipano al nostro rito teatrale e, attraverso loro, nella comunità in cui tutti viviamo, non come forma di militanza politica ortodossa ma come riverbero del mio agire teatrale nella comunità che abito.

21 febbraio 2020

 

 

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