Per strada con Medea. La notte che ho visto e altre percezioni

  • di Gerardo Guccini

Da Occidental Express a Medea per strada

Tempo fa, un intenso spettacolo del Teatro dei Borgia ha trattato col filtro del mito, come ora il recente Medea per strada, tematiche attuali e di forte impatto sociale. Il suo titolo era Occidental Express. Alla base del lavoro scenico, l’omonimo testo di Matéi Visniec, che, come è caratteristico di questo autore, ha passato ai teatranti una successione di situazioni animatamente dialogate[1] . A loro la scelta di scomporla e riformularla a piacere oppure di presentarla nell’ordine dato, ma, in ogni caso, con la consapevolezza di percorrere una molteplicità irriducibile e speculare al caos del mondo reale. Alcune situazioni erano uniche, altre articolate in più scene. In questo gioco di tessere drammatiche a incastro variabile, c’erano viaggi turistici di lusso che sfrecciavano attraverso paesi tenuti ostentatamente a distanza, surreali interrogazioni universitarie sul substrato etnico delle popolazioni balcaniche, onirici e disperati tentativi di fuggire dall’orrore delle guerre e degli smembramenti nazionali verso un occidente mitizzato e colpevole di essere officina di stereotipi e stereotipo esso stesso.

L’Occidental Express, di cui il Teatro dei Borgia e Visniec hanno inteso parlare non è propriamente un treno, ma un formicolante flusso migratorio di corpi e menti, dove emergono, sullo sfondo dei Balcani in subbuglio, figure di prostitute e soldati, laureandi e professori, musici e attori, migranti e prigionieri. Se l’Orient Express storico era un mezzo che trasportava a Istanbul ricchi occidentali, l’Occidental Express è un riversamento di persone che fuggono attraverso luoghi a loro volta sfuggenti e in crisi di identità. Le 13 tessere drammatiche della pièce si aprono e chiudono con le vicende di due personaggi che ricordano Edipo e Antigone. Si tratta di un vecchio cieco e della giovane che lo accompagna; per evitare che le loro azioni inquadrino l’animata coralità dell’insieme nella gabbia d’una trama–cornice, Visniec presenta il cieco e la ragazza in situazioni distinte, dove diverse sono le loro consapevolezze, i loro obiettivi, i loro caratteri. Così il gesto liberatorio, con cui il vecchio piscia sul brulicare di nuovi confini che incentivano e ingarbugliano i flussi dei migranti, si pone non già come climax di un carattere o di una ricerca individuale, ma come metafora d’un istinto condiviso. E cioè del bisogno umano di opporsi – anche di poco, anche solo con un pensiero o un gesto di dissenso – alle limitazioni che la tagliente realtà al mondo oppone alle necessità delle persone. In accordo col senso della scena, lo spettacolo moltiplicava il gesto (simulato) di orinare, che, condiviso da tutti gli attori e da una illusoria folla di manichini, si risolveva in un’allegorica fontana dell’umanità–in–ribelle–attesa–di–speranza. Anche l’Edipo del mito raggiunge una fonte, quella di Colono, sacra alle Eumenidi e venerata dagli Ateniesi. Lungo i tragitti dell’umanità in cerca di sé stessa, gli archetipi proiettano immagini assonanti che mettono in discussione il primato della cronologia. Cosa più attuale, oggi, della disobbedienza di Antigone, della richiesta d’asilo delle Supplici, dei conflitti fra il mondo sociale e la straniera Medea? Medea per strada, a distanza di anni, mantiene due cardini essenziali del processo compositivo di Occidental Express: la presenza del mito – là Edipo, qui Medea – e la raffigurazione degli sradicamenti individuali e collettivi del mondo contemporaneo. Ma attorno a questi elementi, tutto appare mutato. Lo spettacolo non richiede uno spazio scenico attrezzato, ma si svolge dentro e fuori un vecchio furgone del ’94 che trasporta sette spettatori e l’attrice (Elena Cotugno), mentre l’interazione fra mito e realtà, che, in Occidental Express, era principalmente condotta dall’autore e affidata a un ensemble numeroso, si sposta all’interno d’un coeso processo di ricerca condotto dal regista Gianpiero Borgia, dal drammaturgo Fabrizio Sinisi e da Elena Cotugno, che ha incontrato, in veste di ricercatrice, ma con sguardo di attrice, le Medee contemporanee: donne sradicate, sfruttate, assoggettate con violenza. Nel caso di Medea per strada, gli obiettivi e i metodi della ricerca documentaria vanno distinti dagli strumenti dell’attrice. Mentre i primi accumulano indicazioni e storie da utilizzare nella composizione del testo, i secondi appuntano nel corpo e nella voce espressioni, parlate e atteggiamenti, gettando le basi del circuito relazionale che, attraverso la realizzazione performativa della parte, metterà in contatto fonti umane dei comportamenti e fruizione esperienziale del pubblico. Allontanandosi dalle dinamiche rappresentative di Occidental Express, Medea per strada intraprende una ricerca che, rispetto al Teatro dei Borgia, è interna e, rispetto all’attrice, interiorizzata poiché sfocia in una figura di donna che sovrappone e incarna comportamenti e profili psichici ricavati dalle persone incontrate.

Cos’è vero? In primo luogo, l’attrice 

Medea per strada inizia accogliendo sette spettatori in un vecchio furgone. Dopo poche centinaia di metri, sale, a seguito d’un breve battibecco con l’autista, Elena Cotugno: parrucca con capelli lunghi e nerissimi, occhi pesantemente truccati, accento slavo. Parla ora con l’uno ora con l’altro dei sette spettatori sollecitando repliche: gli argomenti prevedono moderate improvvisazioni che non minaccino la tempistica della narrazione. La donna è una prostituta, che, a poco a poco, ora ricordando canzoni, ora raccontando, ora mostrando immagini, dispone le tessere della sua tragica storia. La panca su cui siede, stando di spalle al guidatore, è una specie di palco da camera. Di fronte a lei, gli spettatori sono così disposti: due sul lato destro, due su quello sinistro, tre di fronte: l’essenziale adattamento dello spazio è di Filippo Sarcinelli. Ho visto lo spettacolo alle cinque del pomeriggio, con un sole che spaccava le pietre. «Peccato – mi ha detto Andrea Porcheddu –, questo spettacolo è notturno». Sì, è vero. Quando il furgone si ferma nei luoghi di ritrovo della prostituzione, e lei, l’attrice, scende e si allontana, lo spettacolo recluta, a conferma dei suoi contenuti narrativi, contesti “veri”. Nella storia narrata rivive le fasi del mito di Medea: l’amore, lo sradicamento, i figli, la vita in terra straniera, l’abbandono, il togliere via da sé ogni traccia dell’uomo e di ciò che, assieme a lui, era diventata.

Non mi libero dalla consapevolezza che la Medea/prostituta che racconta sia un’attrice. D’altra parte, questa attrice mostra per davvero un coagulo “vivo” fra Medea e le donne incontrate per potere testimoniare – da attrice, appunto – i loro innumerevoli calvari. Credo che il più grandioso segno della disposizione al sacrificio, che anima i processi artistici degli attori, sia condividere la verità del proprio lavoro sulla parte con chi ne considera il risultato illusorio e fittizio. Vale a dire, con l’inevitabile pubblico che, però, pur prevenuto sull’irrealtà del significato, si lascia vincere – nel crescente accaloramento della lotta con l’artista – dalla realtà del significante. Vale a dire, dalla coerenza che lega toni, sguardi, gesti; dalla danza dei comportamenti; dalla meraviglia dell’apparire. Sappiamo benissimo – come dice Amleto – che l’attore che interpreta Ecuba non ha mai conosciuto né Ecuba né i suoi famigliari, ma sappiamo anche che questo fatto non gli impedisce di piangere facendone il lamento. Dunque: «Chi è Ecuba per lui?». Questo problematico connubio con l’altro da sé (sia questo personaggio o persona) alimenta e rende possibile lo scambio simbolico nel quale l’attore baratta col pubblico, non tanto il proprio essere il personaggio, quanto il proprio vivere la parte. Nello spazio angusto del vecchio furgone, i dialoghi forzatamente vicini e i gesti ai limiti dell’invasione fisica, sembravano oggettivare un antico rituale di contrattazione: io ti do il mio vivere la parte, in cambio ti chiedo di vivere l’esperienza di questo incontro, al quale partecipano altre voci, altre vite.

 Il corpo di Medea

Chi è Medea per Elena? Certamente è un mito che – come scrive il regista Gianpiero Borgia – consente di «raccontare oltre la superficie la storia di alcune migliaia di […] donne straniere, sconosciute», ma è anche un corpo plurale che, al contrario degli stereotipi fisici, che non incarnano nessuno alludendo a tutti, incarna tutti alludendo a un’identità individualizzata: il personaggio. Medea, la barbara, la maga, la moglie–non–greca di Giasone, presta il suo mito al corpo simbolico che l’attrice ricava dagli incontri con donne sradicate e straniere. Dice Elena Cotugno: «E poi, quando sei in terra straniera, pensi di avere dei doveri [per] il fatto stesso che ci sei, che occupi uno spazio. Hai un corpo, e questo corpo – lo so è bizzarro – è un corpo scandaloso perché è diverso, è innaturale, e in quanto innaturale ha bisogno di essere continuamente perdonato. Devi estinguere il debito. E il debito non è qualcosa che hai fatto, ma quello che sei».

Riattivare il Mito aldilà della scrittura: la funzione degli archetipi

Medea per strada mostra l’incontro fra un mito e un corpo simbolico. La sua composizione, però, più che intrecciare vicende e corpi del presente alla riscrittura della storia di Medea, attraversa, del mito, archetipi vuoti e, per così dire, non abitati da parole[2] . In altri termini, l’attrice indossa gli archetipi della donna sradicata, straniera, tradita e punitrice attraverso la morte dei suoi stessi figli, facendosene illuminare e contagiare, tanto da trovare nelle combinazioni di dati e storie congegnate assieme al drammaturgo Fabrizio Sinisi, la materia della loro attivazione contemporanea. Attivazione e non riscrittura. Le riscritture si snodano a partire da una scrittura prima, dalla quale estraggono e ricompongono materiali relativi ai livelli della storia, dell’intreccio e del testo letterario. Se confrontiamo, ad esempio, la Medea di Euripide, l’opera omonima di Luigi Cherubini e il trattamento cinematografico di Pasolini intorno allo stesso personaggio, vediamo come la drammaturgia, in tutti i casi, si preoccupi di predisporre, al livello dell’intreccio, situazioni che consentano di inscenare gli antecedenti e l’attuazione del progetto omicida. E questo per dar modo al drammaturgo di osservare – e quindi ritrarre – il personaggio di Medea mentre agisce all’interno del dramma che lo necessita e ne viene compiuto.

Anche Pasolini, pur intrecciando al mito sue personali poetiche e, poi, l’identità di Maria Callas all’epoca della ripresa – non più maga planetaria, ma donna tragicamente sconfitta –, non si esime dal celebrare, in una pagina di sobria bellezza, la coesistenza di finzione, dolore materno e determinazione omicida. Dice Medea ai figli, mentre Giasone l’osserva e ascolta: «Ah, ho un oscuro presentimento di dolore… Bambini, voi vivrete ancora a lungo, stringerete ancora a lungo la mano di vostro padre! Povera me! Non faccio che piangere e sentirmi piena di angosciosi timori. Proprio adesso, che ho deciso di finire la mia indegna lite con vostro padre, ecco che mi metto a piangere!»[3]. I rovelli del personaggio e i suoi rapporti con l’azione che deve compiere (le precauzioni che prende, gli inganni che trama, i conflitti che sente) sono esattamente ciò che Medea per strada esclude dai suoi orizzonti. Qui la drammaturgia dispiega una successione di archetipi narrativi strettamente associati al corpo simbolico dell’attrice. Ciò fatto, l’assassinio dei figli e della sposa italiana accade senza bisogno di spiegazioni o parole interiori. Il corpo della prostituta straniera è uno straordinario conduttore del mito di Medea: adempite le premesse, questo scivola al tragico compimento quasi che uccidere fosse naturale e la sommatoria dei fatti desse la catastrofe come unico quanto ovvio risultato. Forse, qualora sia esistita, la Medea storica non parlò quasi e, posseduta dai fatti, si limitò ad agire. Rispetto a lei, la scrittura è commento.

 Due segni registici

Vi sono in Medea per strada due segni registici che indirizzano in modo particolarmente mirato e preciso le percezioni degli spettatori. Il primo segnala la natura corale del personaggio, il suo essere presenza che richiama – come dice Gianpiero Borgia – storie «di alcune migliaia di essere umani». A un certo punto della narrazione, dopo che gli spettatori hanno visitato i luoghi del commercio sessuale, la donna alza a tutto volume la musica disco della vecchia radio–registratore e incomincia a ballare stando seduta, poi, senza smettere di ballare si toglie le mutandine, una dopo l’altra, sono tantissime, una successione visionaria. Come accade nella scena dell’allegorica fontana di Occidental Express, il Teatro dei Borgia passa, qui, dalla rappresentazione d’una situazione determinata alla oggettivazione simbolica delle pluralità di azioni e di vite che ne vengono implicate. Il fatto di togliersi le mutandine meccanicamente e senza distinzioni nel gesto, mentre l’espressione del viso partecipa alla straniante frenesia della musica, richiama, in modo simbolico ma esplicito, la serialità dell’atto sessuale. Un secondo segno registico di particolare pregnanza si verifica nel finale, allorché l’attrice si strucca, si toglie la parrucca e, mostrando il suo viso quotidiano, esce furtivamente dal furgone. Questo modesto eclissarsi è forse l’esatto equivalente del finale di Euripide, dove Medea si congeda volando via su un carro trainato da draghi alati. Probabilmente la mia lettura si rivelerà azzardata, in ogni caso trovo il confronto piuttosto indicativo delle differenze che intercorrono fra riscrittura e attivazione.

Tre Medee, il problema dell’uscita dal Mito

In Euripide, Giasone, avvertito della strage, si dirige verso la casa di Medea, gridando ai servi di liberare le spranghe e allentare i serrami. Tutto è inutile, la maga appare in aria. Accanto a lei, sul carro prodigioso, i cadaveri dei figli. Ascoltiamo cosa dice al marito che l’aveva ripudiata (la traduzione è quella di Ettore Romagnoli): «A che mai questa porta scuoti e scalzi, / e i morti cerchi, e me che uccisi? Tregua/poni al travaglio; e se d’uopo hai di me, / di’ quel che vuoi. Ma non potrai toccarmi. /Il Sole, il padre di mio padre, un carro/ mi die’ che me degl’inimici salva». Maga di stirpe divina, Medea, uccidendo i figli, si affranca dalla condizione sottomessa acquisita con le nozze, e riprende il suo stato originario, tanto che il Sole stesso la pone in salvo.

Pasolini, che riscrive il mito componendo di sponda al testo di Euripide, mantiene l’intangibilità sacrale della donna. La sua Medea si rivolge a Giasone attraverso le fiamme dell’incendio da lei stessa appiccato: «Perché cerchi di passare attraverso il fuoco? Non potrai farlo. È inutile tentare. Se vuoi parlarmi, puoi farlo, ma senza avermi vicino né toccarmi»[4]. Di lì a poco, la splendida battuta finale le affida il compito di sigillare il mito ormai compiuto: «No. Non insistere, ancora, è inutile! Niente è più possibile, ormai»[5] .

Medea per strada non riscrive il mito, ma lo riattiva, calando nei suoi archetipi vuoti una tipologia umana del mondo contemporaneo. Questa compenetrazione mostra come i nudi fatti della storia di Medea – anche straniati dai loro originari contenuti cultuali e simbolici – presentino la facoltà di organizzare e narrare i frammenti d’un presente refrattario a dirsi, a spiegarsi, ad analizzarsi. D’un presente, insomma, che si riflette nel parlare della prostituta animata da Elena Cotugno che, grande affabulatrice sociale, ammutolisce di fronte a sé stessa mentre agisce. Dice, sì, quello che ha fatto, ma non ha una parola che illumini il suo pensare e sentire in relazione al progetto omicida e al suo compimento. A spiegarne la storia, intervengono gli archetipi vuoti del mito di Medea. Lo sradicamento dai propri luoghi, il divenire stranieri, l’innamorarsi, l’affidare la propria identità a un nuovo organismo famigliare, il vedere nei figli un legame che unisce indissolubilmente padre e madre, il ripudio da parte dell’uomo, l’apparire della moglie–non– straniera (greca o italiana), sono tutte transizioni esperienziali di permanente vitalità antropologica. Queste, nel venire esposte e coniugate, importano la risoluzione tragica di Medea all’interno d’un personaggio di prostituta, che le resta tanto radicalmente estraneo che, per lui, il ritorno allo stato originario non comporta draghi o fiamme, ma si risolve nell’acquisizione d’un aspetto quotidiano e semplice.

Medea, anche al di fuori del suo mito, resta mitica. Il personaggio della prostituta, no. Allorché esce dalla storia che l’ha reso così come l’abbiamo conosciuto – debordante, eccessivo, emozionale, estremo –, i suoi connotati si spengono, il trucco sparisce e i lunghi capelli corvini fanno luogo al luminoso castano di Elena Cotugno. Con lei, prima che lo spettacolo finisca, attraversiamo uno spazio liminare e segreto. Cosa stiamo vedendo: la persona che sbuca dal personaggio? Oppure l’attore che, struccandosi, si prepara ad uscire dal teatro? Sono passaggi talmente simili da potere venire equivocati. Eppure, credo che il rapido sguardo semicircolare che Elena, già sulla soglia del furgone, rivolge ai suoi sette spettatori, sia quello della donna nascosta che, prima del mito, era stata il proprio solo io e che ora, narrata la catastrofe, si mostra un attimo per subito sparire nella notte.

[1] Cfr. Matéi Visniec, Occidental Express, Titivillus, S. Miniato (Pisa) 2012.

[2] Chris Vogler, a partire dagli archetipi individuati da Jung e dall’opera sul mito di Joseph Campbell, ha costruito una teoria in cui dimostra che qualsiasi storia presenta determinati passaggi narrativi e che ogni personaggio si può ricondurre a un archetipo esercitando una funzione, ferma restando il fatto che, nella storia, il personaggio può svolgere diverse funzioni. Chris Vogler, Il viaggio dell’eroe. La struttura del mito ad uso di scrittori di narrativa e di cinema, Dino Audino, Roma 2010.

[3] Medea: un film di Pier Paolo Pasolini, Garzanti, Milano 1970, p. 79.

[4] Ivi, p. 107.

[5] Ivi, p. 108.

In “Quaderni del Teatro Olimpico n 40 – Diario 2019” a cura di Dino Piovan, Riccardo Brazzale

pubblicazione realizzata in occasione del

72° CICLO DI SPETTACOLI CLASSICI AL TEATRO OLIMPICO DI VICENZA

19 settembre – 27 ottobre 2019 – direzione artistica di Giancarlo Marinelli
Organizzato da Comune di Vicenza
Fondazione Teatro Comunale Città di Vicenza
Con il concorso di Regione Veneto
Il sostegno di Viacqua per il progetto “La tragedia innocente”

 

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