Monica Varrese su PAC 12-03-18
“Morti, purtroppo son morti, di giustizia son morti e va bene così”. Con queste parole, incastrate in una partitura melodica frizzante che ricorda le canzoni da avanspettacolo d’altri tempi, si apre lo spettacolo Cabaret Sacco e Vanzetti, drammaturgia di Michele Santeramo, per la regia di Gianpiero Borgia.

La storia è quella del pescivendolo piemontese Bartolomeo Vanzetti e del calzolaio pugliese Nicola Sacco, arrestati la sera del 5 maggio 1920 e incriminati con l’accusa di duplice omicidio e rapina a mano armata compiuti in Pearl Street e South Braintree, negli Stati Uniti. I due protagonisti, migranti e anarchici, diventano il simbolo della discriminazione e della mala giustizia, raccontata con canti e sketch, propri del linguaggio cabarettistico. Con questo spettacolo il regista Gianpiero Borgia continua la sua personale indagine sull’immigrazione e sul razzismo, temi affrontati anche in altre produzioni come “Lampedusa” o “Medea per strada”. Questo spettacolo, in coproduzione con il Teatro Nazionale Croato Ivan De Zajc – Dramma Italiano di Fiume, rientra nel ciclo dei “Cabaret Storici”, dopo “Cabaret D’Annunzio”, con il quale il regista ha inaugurato un genere teatrale che incastra tre elementi: la commedia brillante prossima alla rivista e l’ avanspettacolo; il teatro brechtiano e la Storia.
Sin da subito lo spettatore entra in contatto con la tagliente ironia dei protagonisti, interpretati da Raffaele Braia (Nicola Sacco) e Valerio Tambone (Bartolomeo Vanzetti), duo comico alla Stanlio e Olio: il primo goffo, impulsivo, che riesce a far ridere con quell’umorismo tutto del Sud; il secondo con il suo cravattino a farfalla, è più distinto, riflessivo e un buon oratore. Due uomini agli antipodi, ma più vicini fra loro di quanto non possa apparentemente sembrare. La cosa che li accomuna è la solitudine, filo rosso della pièce, che viene raccontata attraverso la scelta di una scenografia essenziale e fredda, realizzata da Vincenzo Mascoli: reti da letto sospese ai lati che circondano la scena e strutture in ferro che, smontandosi, creano altre immagini. I volti dei protagonisti truccati da clown sono un ulteriore elemento di analisi. Entrambi diventano “fantocci” di un sistema che li raggira, vittime di un processo-farsa che mette in gioco la dignità umana. Il pugno allo stomaco arriva quando è chiaro sin dall’inizio che a nulla servirà sottostare alle prove assurde imposte dalla Corte.

Come corre uno svedese? Come spara un italiano? Il pubblico, in veste di giudice, tace e osserva le conseguenze della macchina della giustizia che si è inceppata, impedendo alla verità di venire a galla.

Tecnica ricorrente nella drammaturgia e propria del teatro epico brechtiano, la rottura della quarta parete. I due protagonisti si rivolgono direttamente al pubblico, cantando:” Sono bastardo pure io, sei bastardo pure tu, siamo bastardi tutti noi”. È in questo momento che il tema dell’immigrazione viene fuori con tutta la sua forza, sottolineando il ruolo passivo di chi resta a guardare, spettatore di una storia che si ripete ciclicamente con gli stessi errori.

Cicerone affermava che non sapere cosa sia accaduto nel passato sarebbe come restare per sempre bambini. Questo tipo di teatro, occupandosi di ciò che accade, permette di non rimanere nell’infanzia della conoscenza per agire concretamente nel tempo presente o perlomeno, per porsi delle domande. Tutti sappiamo come andrà a finire la loro storia (verranno entrambi giustiziati e condannati alla sedia elettrica nel 1927), ma nonostante questo abbiamo bisogno di sperare fino all’ultima scena che il loro destino possa cambiare. Di grande impatto emotivo il monologo di Bart, che riporta le ultime parole pronunciate davanti ai giudici, prima che la sentenza di morte fosse ufficialmente emessa:

“Non augurerei a un cane o a un serpente, alla più miserevole e sfortunata creatura della terra, ciò che ho avuto a soffrire per colpe che non ho commesso. Ma la mia convinzione è un’altra: che ho sofferto per colpe che ho effettivamente commesso. Sto soffrendo perché sono un radicale, e in effetti io sono un radicale; ho sofferto perché sono un italiano, e in effetti io sono un italiano; ho sofferto di più per la mia famiglia e per i miei cari che per me stesso; ma sono tanto convinto di essere nel giusto che se voi aveste il potere di ammazzarmi due volte, e per due volte io potessi rinascere, vivrei di nuovo per fare esattamente ciò che ho fatto finora”.

Parole intrise di spirito di giustizia, che ricordano il film di Giuliano Montaldo (1971), in cui lo stesso monologo viene interpretato dall’attore Gian Maria Volontè.

Cabaret Sacco e Vanzetti è uno spettacolo intenso, in cui lo spettatore compie un viaggio lungo sette anni, attraversato da attimi emotivamente più forti e incisivi del suo epilogo. L’intensità drammaturgico-recitativa, che per tutta la rappresentazione la regia riesce a mantenere alte, trovano esito in un finale forse non di uguale compostezza e tensione, parte dell’allestimento su cui probabilmente è possibile ancora qualche intervento per permettere all’operazione l’unitarieta’ e la ferocia narrativa, che per lunghi tratti si respira, anche nella conclusione.

È una vicenda che non termina con la morte dei protagonisti, bensì con quello che resta dopo, il silenzio di chi è rimasto e non ha fatto nulla per riparare gli ingranaggi di questa macchina infernale. Lo stesso silenzio cantato da Joan Baez nel brano The ballad of Sacco and Vanzetti, dedicato a Nick e Bart: only silence is shame.

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